Jannik Sinner si è raccontato ai microfoni di SkySport Tennis in occasione del documentario Jannik, Oltre il Tennis – Capitolo 3. Nell’intervista, il numero 1 del mondo ha ripercorso i primi passi nel tennis, vissuto come passatempo al fianco della zia, fino ad arrivare agli ultimi mesi della carriera.
Il tennis vissuto come hobby con la zia
Sinner è tornato a parlare in esclusiva a SkySport Tennis, che ha deciso di dedicargli il terzo capitolo del documentario Jannik, Oltre il Tennis.
Tanti i tempi affrontati, iniziando dal tennis vissuto come passatempo insieme alla zia recentemente scomparsa.
“È partito tutto come un hobby, ora è il mio lavoro, ma quando vado in campo è ancora un hobby perché mi sento ancora come un ragazzino che gioca a tennis. Mi sento veramente fortunato.
Io quest’anno ho capito tante cose. Ero in una situazione molto difficile e delicata prima dello US Open, per i mesi precedenti, dove ho fatto fatica a comprendere quello che stava succedendo. A un certo punto mi sono detto: ‘No Jannik, alla fine è tutto abbastanza irrilevante, perché questo sport ti può dare soddisfazioni e ti può buttare giù anche moralmente, però alla fine io sto bene’.
Cioè, io sono sano, la mia famiglia è sana, sapevo però che c’era mia zia che non stava bene. Mia zia mi ha dato tanto quando ero piccolo, qualche volta mi accompagnava alle gare, i miei genitori lavoravano e io stavo un po’ con lei. D’estate andavo in piscina con lei, era una persona molto molto importante per me.
Nel momento in cui una persona così sta male, il lavoro è abbastanza relativo. Ovviamente io do tanto di me stesso quando lavoro, quando vado in palestra, quando mi alleno… Voglio fare tutto al cento per cento, però c’è sempre questo secondo pensiero perché mi rendo conto di fare quello che amo e lo devo apprezzare perché quello che accade intorno non è sempre come vorresti”.
Il caso Clostebol
L’attenzione, successivamente, non poteva che spostarsi sul caso Clostebol.
“Era difficile innanzitutto perché non mi potevo aprire con tante persone. Un periodo molto complicato perché non sapevo come dovevo comportarmi io, di persona, non sapevo cosa sarebbe uscito, non sapevo cosa sarebbe successo con il team.
Era molto difficile, normalmente io sono sempre in controllo e invece lì era abbastanza facile perderlo, il controllo. Solo che dopo un po’ di settimane mi sono svegliato un mattino e ho detto: ‘Ma alla fine io non ho fatto niente di sbagliato, non sapevo niente e quindi per me era già passata, poi quello che esce dal giudice, quello che può uscire o non può uscire alla fine io non lo posso più controllare, no?’.
Il vero momento difficile, secondo me, era proprio quando è uscita la notizia. Ed è uscita in una fase molto delicata perché è arrivata prima di un grande slam. Io mi volevo già allenare dal mercoledì, la notizia è uscita il martedì e abbiamo deciso che era meglio di no, perché ci sarebbe stato troppo casino al circolo e quindi siamo andati il giovedì, di sera, perché così tanta gente sarebbe andata via. Arriviamo lì e avevamo tutte le camere addosso, era molto dura.
Io guardavo gli altri giocatori per capire cosa pensassero veramente. Mi sono fatto tante domande, era difficile preparare un grande slam così. In fondo però sono convinto che niente succede per caso e forse questo caso era proprio per capire chi è tuo amico e chi non lo è. Io ho separato proprio queste due faccende. Ho capito che ci sono tanti giocatori che non pensavo che fossero miei amici e c’è una quantità abbastanza grande che pensavo fossero amici e invece non lo sono. A me questo alla fine non dico che mi ha fatto bene, però mi ha fatto capire tante cose.
Certo, è stato complicato quando io sapevo, ma ancora non era uscito niente. Magari vincevo una partita e mi vedevano proprio giù di testa e mi dicevano: ‘Ma tu hai vinto, perché stai così?’. E io lì cosa avrei dovuto rispondere? Ho detto: ‘No, no, sto bene, è tutto a posto’.
Poi c’erano delle partite in cui la notte prima non dormivo. Come probabilmente avete visto, prima della gara con Medvedev. La notte prima non ho dormito. Poi certo che il mattino sono stato male. Avrei dovuto giocare cinque set, non è una partita che è finita in tre set.
Ci sono tante cose che sono successe in questo periodo che ho provato a mettere via e a capire cos’è la cosa giusta da fare in quel momento lì”.
Il ringraziamento alla squadra
L’aiuto dello staff è stato fondamentale per il nostro Jannik.
“Secondo me, parlo adesso di me stesso, devo ringraziare il mio team che mi è stato vicino tutto il tempo perché mi serviva.
Per esempio, Darren non è andato a casa in Australia ed è venuto da me, è stato con me, mio papà è venuto. Grazie a loro io mi sono sentito al sicuro. Protetto. Proprio per questo quando dico che, quando si vincono dei tornei o anche delle partite che significano molto, le dedico sempre alle persone che mi stanno vicino perché senza di loro tutto questo non so come potevo superarlo.
Sono contento di come l’ho gestita perché era molto difficile. Però nel momento in cui vado in campo e mi metto il cappellino, per me esiste solo la palla da tennis. In campo mi sento al sicuro. Poi abbiamo visto che è difficile giocare così, ma quello è un altro discorso. Però mi sento al sicuro. Quando vedo la palla e sto per servire tutto il mio focus e la mia voglia è di tirare la palla in campo. Alla fine, è il mio lavoro e la mia passione.
C’era da separare il problema e il lavoro. Io ho sempre cercato di stare bene in campo, mi sono sempre allenato, mi sono sempre preparato mentalmente per giocare bene a tennis e alla fine proprio per questo io ci sono riuscito. Anche perché, questa è la cosa più importante, se io avessi saputo che è stata colpa mia, secondo me non avrei giocato così”.
I commenti sono chiusi.