Il New York Times, in un editoriale uscito negli scorsi giorni, ha ripercorso la performance al Roland Garros contro Daniel Altmaier del nostro Jannik Sinner. Il quotidiano americano ha sottolineato come sia necessario avere nello sport un tipo di perdenti come l’altoatesino per poter celebrare le vittorie altrui.
Sinner sicuramente non sta vivendo il momento migliore dell’anno. Dopo le ottime prestazioni sul cemento australiano e americano (con in mezzo la vittoria all’Atp250 di Montpellier su cemento indoor) e la semifinale al masters1000 di Montecarlo, qualcosa si è spento. Sono arrivati i problemi fisici all’Atp500 di Barcellona, il forfait al masters1000 di Madrid e i disastri agli Internazionali d’Italia e al Roland Garros.
La sconfitta con Daniel Altmaier a Parigi è quella rimasta impressa più di tutte perché avvenuta in occasione dell’appuntamento più importante della stagione sul rosso. Un’impresa, quella del nostro Jannik, celebrata ironicamente anche dal New York Times, che non ha risparmiato un attacco frontale al nostro portacolori.
“Sinner è uscito dal campo disordinato e nervoso, la sua faccia tradiva l’insicurezza comune ai perdenti. In altre parole, era meravigliosamente umano. Lunga vita ai fragili, agli stanchi e sfiniti, ai lottatori e agli sbandati. Gli atleti che subiscono tristemente in pubblico. Lunga vita agli sconfitti nello sport.
Sinner avrebbe dovuto vincere senza troppi problemi. È andato avanti presto, ma ha lottato. Passata un’ora, Altmaier l’ha raggiunto. Passata un’altra ora la partita è andata in stallo. Tre ore diventano quattro. Sinner ha due match point e li brucia entrambi. Vanno al quinto set. E poi… e poi, dopo 5 ore e 26 minuti, game set and match. Punteggio finale: 67 (0) 76 (7) 16 76 75. La quinta partita più lunga nella storia dell’Open di Francia.
La maggior parte della narrazione si concentra sui vincitori. È naturale. I più grandi atleti del mondo estendono e piegano i limiti del potenziale umano. Il meglio del meglio sembra persino in grado di controllare il tempo. Non c’è da stupirsi che li guardiamo esibirsi con un timore reverenziale che sembra esistenziale. Sono diventati divini nel nostro mondo. Va bene ed è comprensibile, ma datemi il tennista che lotta con tutte le sue forze per vincere una singola partita in uno slam.
Datemi la stella del basket che sbaglia tiri liberi cruciali e il portiere dell’hockey che scivola e lascia passare il tiro vincente. Datemi i nervi che appassiscono quando arriva la pressione. I riflessi che non sono più quelli di una volta. Perché? Bene, i vincitori avranno sempre ciò che gli spetta. Ma errare, come tutti sappiamo, è umano, interamente e magnificamente. E quelli che perdono in così tanti modi diversi occupano l’angolo più riconoscibile degli sport di successo.
C’è conforto nel sapere che atleti altamente performanti, estremamente coordinati e profondamente testati in battaglia possono stancarsi, avere crampi, soccombere alla pressione, lottare e subire una sconfitta pungente. Nell’atto del fallire, diventano, anche se solo per poco, più simili al resto di noi”.
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