“Si tratta della vittoria più importante della carriera di mio figlio”. A parlare è la signora Dijana Žagar e il figlio di cui sta parlando è il numero uno del mondo del tennis, uno dei giocatori più forti che abbiano mai messo piede sul pianeta Terra, Novak Djokovic. Lo scenario è quello che abbiamo imparato a conoscere, la formazione al completo della famiglia in quel di Belgrado: mamma, papà e fratello minore.
La vittoria di cui parla non è stata ottenuta sul campo, ma nell’Aula di un Tribunale di Melbourne, Australia, dove un giudice, al secolo Anthony Kelly, ha appena ribaltato la decisione dell’Autorità di frontiera di non concedere il visto d’entrata a Novak, convinto No Vax, alla ricerca del decimo Australian Open e del ventunesimo titolo del Grande Slam in carriera. Una vicenda raccapricciante, difficile trovare altre definizioni, da cui tutti i protagonisti escono a pezzi.
Il primo di questi è proprio Djokovic, con buona pace della signora Dijana: questa non è stata affatto la più grande vittoria di Novak, e temiamo che se ne accorgeranno tutti molto presto. Se ne accorgerà per primo lo stesso campione serbo, da una vita alla ricerca di un consenso e di un amore da parte dei fan del tennis proporzionato alla sua forza in campo, e invece sempre frustrato dal confronto con i suoi due avversari di sempre, Roger Federer e Rafael Nadal. Semplicemente molto più amati di lui.
Ora che è diventato l’idolo dei Nigel Farage, dei Simone Pillon, degli Alessandro Meluzzi, dei Claudio Borghi di turno, davvero Djokovic è sicuro che riceverà solo applausi dove avrà l’occasione di far vedere la sua forza e la sua classe? Davvero crede che essere diventato lo Spartaco o il Gesù (definizioni del sempre morigerato papà Srdjan) di una galassia di complottisti che confondono libertà e diritti con prepotenza e provocazione, possa in qualche modo giovargli?
Difficile pensare ad una tenuta più imbarazzante per il numero uno del mondo. Incurante della responsabilità che il suo ruolo di super star internazionale gli comporta, Djokovic – tralasciando quanto combinato dall’inizio della pandemia ad oggi – ha voluto forzare una battaglia irresponsabile, egoistica e carica di potenziali conseguenze negative, rifiutando il vaccino e rifiutando a priori di rispettare le regole di un Paese, l’Australia (altra protagonista in negativo della vicenda) per dimostrare a chissà chi di essere in grado di sovvertire “l’ordine dei poteri forti” (altra chicca del delirante babbo).
Diciamolo in poche semplici parole: potrà anche partecipare agli Australian Open, potrà anche vincerli, potrà anche uscire soddisfatto e tronfio da questa vicenda, ma quel che è certo è che Novak da domani avrà molti meno fan rispetto a quanti ne aveva ieri. E tra questi, forse, ci saranno anche le persone che ha contagiato il 16 e 17 dicembre a Belgrado, quando, da positivo al Covid, ha preso parte ad alcuni eventi pubblici in presenza, senza mascherina e senza nessuna distanza di sicurezza dagli altri partecipanti.
Già, perché forse stiamo un attimo perdendo di vista il cuore della vicenda. Djokovic sostiene di essere stato testato positivo al Covid lo scorso 16 dicembre. E’ il cardine della sua “esenzione”, l’unico motivo per cui potrebbe entrare in Australia da non vaccinato. Peccato che, appunto, nessuno lo sapesse. Peccato che, a differenza del 2020 in cui lo dichiarò urbi et orbi, in questo caso se lo sia tenuto per lui. Peccato che, se è vero che il 16 dicembre era positivo al Covid, il fatto che in quelle stesse ore fosse in giro per eventi nella capitale serba lo pone su un piano di irresponsabilità ancora più grande.
Uno scenario da incubo, ben riassunto da quanto detto dal tennista francese Pierre-Hugues Herbert, anche lui contro il vaccino Covid e risultato positivo all’ultimo tampone: “Non sarebbe stata accettabile per gli australiani la mia presenza quindi non ho mai pensato di andarci”. E invece Djokovic aveva altri programmi. Non solo quello di continuare la sua battaglia personale contro il vaccino, ma di imporla anche al resto del mondo, e soprattutto di andare allo scontro con quel Paese, l’Australia, che non sembrava aspettare situazione migliore per mettere in mostra un sistema a dir poco ridicolo.
Sì, perché non sono solo Novak e il suo impresentabile clan ad uscire massacrati da questa vicenda. C’è tutto il sistema Australia. Il governo federale, quello dello Stato di Victoria, il giudice che ha ribaltato tutto, il capo di Tennis Australia e plenipotenziario del torneo Craig Tiley. Si salvi chi può. Indicazioni contraddittorie, incapacità di prendere una posizione comune, voltafaccia, reazioni inconsulte e irrazionali, e chi più ne ha più ne metta. Per un Paese che è stato tra i simboli della lotta al Covid, una fine davvero ingloriosa, risucchiato nella giostra ideologico-politica del serbo.
Un quadro scioccante, che però potrebbe preservare la cosa più importante, almeno per noi che seguiamo e amiamo il nostro sport. Molti sostengono che lo spettacolo indegno a cui stiamo assistendo farà male al tennis, noi crediamo il contrario. E lo crediamo sulla base di un semplice assunto: tutto questo non ha nulla a che fare con il tennis. Il Nole campione non ha nulla a che fare con l’uomo arrogante, affetto da deliri di onnipotenza, che si è posto al di sopra delle regole e dei suoi colleghi.
Il tennis non ne esce a pezzi perché il tennis è un’altra cosa. Ed è per questo che, nel nostro piccolo, per quanto possiamo, proveremo a rompere questa catena, a spezzare questo circolo vizioso. Con questo articolo si chiude la nostra copertura giornalistica di una vicenda che è troppo brutta per essere vera. Da oggi si ricomincia a parlare di tennis. Questa baracconata, qualunque sia l’epilogo, la lasciamo a giornalini e giornaloni che vogliono lucrare sul disagio. Noi diciamo basta, rinunciamo a qualche clic, ma torniamo a raccontare lo sport che più amiamo. Abbiamo perso fin troppo tempo dietro questo schifo.
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