“Ho vinto comunque, ho il cuore gonfio di gioia e di emozione per quello che mi avete dato oggi. Non ho mai sentito questo supporto a New York”. Ecco, tralasciando il comportamento a tratti vergognoso del pubblico americano, le parole di Novak Djokovic dopo aver perso la finale degli US Open contro Daniil Medvedev trasmettono tutto quello che è successo nella serata di Flushing Meadows.
Ed è successo che, nel giorno della sconfitta più dura, nel giorno in cui il serbo manca l’obiettivo di una carriera e di una vita, ne centra un altro, forse meno importante a livello statistico, sicuramente meno prestigioso, ma decisamente significativo, soprattutto per quella che è stata la sua storia sui campi di tutto il mondo: il numero uno del mondo, l’uomo dei record, a 34 anni è finalmente entrato nel cuore dei tifosi.
E non è un caso che tutto questa succeda nel momento in cui anche Novak, la macchina, il computer, l’infallibile, dimostri invece di essere umano, come tutti. Non solo sul campo, dove non è riuscito a domare quel “cavallo” purosangue che ha dimostrato di essere Daniil Medvedev, ma anche a bordo campo, dove si è lasciato andare, coperto dalla barriera del suo asciugamano, ad un pianto inconsolabile che mostrato al mondo quando la pressione possa incidere anche sul campione più vincente della storia del tennis.
E anche il modo in cui ha accettato la sconfitta, riconoscendo i meriti – indiscutibili – dell’avversario, ha fatto vedere il lato da “signore” di Novak. Insomma, per lui, abituato per una vita a giocare con il pubblico “contro”, schierato con i suoi rivali di sempre Roger Federer e Rafael Nadal, aver abbattuto quel muro proprio nel giorno della delusione più cocente, vale comunque come una vittoria.
E forse, ma lo diciamo a bassa voce, quel pubblico così a favore ha scalfito le certezze di chi, per una carriera, è stato abituato a fare del tifo contrario la sua linfa vitale.
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