“Il tennis vive di momenti. Quella sosta ha fatto girare ancora la partita. Potevo vincerla. Da un lato mi fa piacere, dall’altro mi rode”. La testa è ancora là, a quel quarto di finale giocato alla grande contro Novak Djokovic e condizionato, inevitabilmente, da quella lunga pausa per far defluire il pubblico del Roland Garros causa coprifuoco Covid.
Matteo Berrettini ha parlato molte cose in una bella intervista al Corriere della Sera, in primis, dell’eliminazione ai quarti di finale dello Slam parigino contro il numero uno del mondo. Quell’interruzione, dice, “non mi ha fatto bene, questo è certo. Mi ha tolto qualcosa. Prima dell’interruzione, l’inerzia del match era cambiata a mio favore. Al rientro, ero un po’ bloccato con le gambe e ho avuto un calo di tensione. Lui invece ha usato il tempo per riorganizzare le idee”.
E alla fine ha vinto ancora lui, tra l’altro con un’esultanza che ha fatto molto discutere e che lo stesso Berrettini non si aspettava, ma che comunque gli ha fatto molto piacere, perché l’ha preso come un attestato di stima: “Significa che ha sentito paura. E sono stato io a mettergliela addosso. Si era reso conto che stava rischiando grosso. Urlando così si è liberato dalla tensione. Il fatto che non ci fosse pubblico e si giocasse nel silenzio ha amplificato l’effetto”.
Quella di Matteo a Parigi è stata una delle tante belle prestazioni del tennis italiano negli ultimi tempi, un periodo d’oro, in cui si parla tanto soprattutto di Jannik Sinner e Lorenzo Musetti. Berrettini li rispetta molto, ma non nasconde un certo fastidio per il fatto che tutte le attenzioni siano prevalentemente concentrate su di loro: “Ho fatto un percorso diverso. Non sono mai stato un predestinato. A 18 anni ero ancora molto indietro. Quindi capisco che ci sia tutto questo clamore intorno a loro. Sono ancora più giovani di me, fanno impressione.
Le dà fastidio questa disparità di trattamento? “Ammetto che certe volte me la prendo un po’. Non solo per me. Vedo quello che fa Lorenzo Sonego, e tutti gli altri nostri giocatori, per fortuna ne abbiamo molti, e sembra quasi che non conti nulla. Ma che posso farci, funziona in questo modo, così va la vita”. Ma in fondo, ammette, “credo che pure la mia sia una bella storia, anche se non sono entrato nei top 100 a 19 anni, e a quell’età cercavo di farmi strada giocando piccoli tornei in località sperdute dell’Egitto o della Grecia”.
E infine uno sguardo al futuro. Dove vorrebbe giocare la partita della vita? “Su un campo veloce, non velocissimo. La terra di Madrid in altura quest’anno mi è piaciuta parecchio. Oppure il cemento americano”.
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