“Siamo professionisti. Devi permettere alla folla di partecipare. I newyorchesi vogliono il sangue”, diceva Jimmy Connors a proposito degli Us Open. Ora, il sangue non c’è stato, ma poco ci mancava. Già, perché il grande protagonista nei primi giorni a Flushing Meadows è stato il caldo devastante, che ha causato una serie di ritiri a raffica che manco la Parigi-Dakar e che ci ha addirittura fatto assistere alla scena in realtà quasi apocalittica di Novak Djokovic a bordo campo che si faceva misurare la pressione.
Il caldo, per fortuna degli organizzatori, che con l’Extreme Heat Policy sono andati letteralmente in tilt, è calato col passare dei giorni. E allora s’è cominciato a vedere il buon tennis. E dopo una settimana, prima cioè che da domenica (come in ogni Major tranne Wimbledon, dove si riparte con il Manic Monday) si cominci a fare sul serio, è già tempo di bilanci. Lo facciamo tramite una serie di promozioni e bocciature, che ci aiutano a fare il quadro di ciò che è avvenuto finora…
Tra i promossi non possiamo non mettere i big three (c’erano una volta i big four, ma ne parleremo tra poco) del tennis mondiale degli ultimi quindici anni, i dominatori assoluti, in rigoroso ordine di ranking Atp: Rafa Nadal, Roger Federer e Novak Djokovic. Una partenza non entusiasmante per tutti e tre e un finale di settimana in crescendo per Roger e Nole, mentre Rafa ha sofferto più del previsto contro il promettentissimo russo Khachanov. Federer s’è anche tolto la soddisfazione, contro l’evanescente Nick Kyrgios, di mettere a segno il “punto del torneo”, quello che chi l’ha visto lo potrà raccontare ai nipotini. Dunque i tre ultratrentenni se la comandano ancora alla grande, grazie alla capacità di gestire meglio degli altri i momenti chiave delle partite. Sarà per questo che hanno vinto 50 (dicasi 50) tornei del Grande Slam in tre? Implacabili.
Big three, dunque. Ma una volta non erano i big four? Sì, una volta. Quando di questo gruppo di “Dei del tennis” faceva parte anche Andy Murray. Numero 1 del mondo per 41 settimane a cavallo del 2016-2017, a metà dello scorso anno è cominciato il crollo verticale, a causa dei problemi fisici all’anca, cui hanno fatto seguito un delicato intervento chirurgico e un lungo stop, che lo hanno fatto scivolare addirittura in posizione 832 del ranking mondiale. E’ brutto da dire, perché il Murray visto a New York quest’anno ha fatto filtrare lampi di classe cristallina, ma la sensazione è che difficilmente, a 31 anni, potrà tornare ai livelli pre-infortunio. Nel match contro Verdasco, che lo ha battuto in 4 set, a un certo punto sembrava facesse addirittura fatica a camminare tra uno scambio e l’altro. Da stringere il cuore.
Usciva da un periodo nero anche Stan Wawrinka, che aveva già fatto vedere a Cincinnati segnali di ripresa. Segnali confermati nei primi due turni qui a New York, in particolare nel primo in cui ha portato a scuola l’oggetto misterioso Grigor Dimitrov (bocciatissimo). E’ stato eliminato al terzo da Milos Raonic, più per demeriti propri che per meriti dell’avversario. Comunque Stanimal sta tornando (e noi non possiamo che esserne felici). In fiducia, nonostante tutto.
Tra i promossi, ovviamente, anche Juan Martin Del Potro (in gran forma), Marin Cilic (chiamato a dimostrare che non ha vinto il suo unico Slam, qui a New York nel 2014, solo per il fatto di essere nato a Medjugorje), Dominic Thiem, Kei Nishikori e soprattutto un grandissimo Kevin Anderson: lo “struzzo” di Johannesburg, a 32 anni, sta giocando la sua stagione e il suo tennis migliori di sempre. Tutti da tenere d’occhio.
Tra i bocciati, la delusione più grande non può che essere legata al nome di Alexander Zverev. Ancora una volta la sua missione alla conquista di un torneo dello Slam finisce in un buco nell’acqua, annichilito dal “vecchio” connazionale Kohlschreiber al terzo turno. E’ chiaro che per Sasha – che comunque ha tutto il tempo per mettersi in pari – si tratta di un problema prevalentemente mentale barra psicologico. Ivan Lendl, con lui, avrà molto da lavorare su questo aspetto.
Bocciata, anzi distrutta, quella che doveva essere la corazzata azzurra agli Us Open ed invece si è rivelata una Little Italy. In campo femminile paghiamo una fase di ricambio generazionale, dopo gli anni d’oro delle varie Schiavone, Pennetta, Vince ed Errani. E la sola Camila Giorgi – che ancora una volta ha giocato in maniera scriteriata dal punto di vista tattico – non ha le spalle abbastanza larghe per reggere su se stessa il peso di tutto il movimento. Ma tra i maschi c’era grande fiducia. Sette uomini nel tabellone principale, due teste di serie. Le condizioni per fare bene, insomma, c’erano tutte. E invece, dopo un avvio incoraggiante, fuori tutti già al secondo turno. Le delusioni più grandi: Marco Cecchinato (che al primo turno ha buttato via la partita contro Benneteau e mostrato limiti tecnici sul cemento, oltre che caratteriali), Matteo Berrettini (strapazzato al primo turno dall’anonimo americano Kudla) e soprattutto Fabio Fognini, che merita un discorso a parte.
Il ligure – che nonostante l’imbarazzante torneo disputato potrebbe ritrovarsi addirittura numero 12 al mondo, migliorando il suo ranking di due posizioni – colpisce ogni volta per quanto riesca a esprimere il peggio di sé quando ci sarebbe da tirare fuori il meglio. L’eliminazione contro il coriaceo Millman (ma già il primo turno sofferto contro l’improponibile Mmoh) sono la dimostrazione che, soprattutto nei Major, Fabio non riesca a fare il salto di qualità con la testa e finisca per offrire prestazioni non degne del suo tennis e della sua classifica. Il tutto, quest’anno, è reso ancora più triste dall’outfit scelto da Fognini per il torneo, con abbigliamento che ha ricordato a tutti quello di Apollo Creed in Rocky IV. Una scelta che si è rivelata quanto mai infelice. Recidivo.
E la Next Gen? Eh… la Next Gen. C’erano grandissime aspettative nei confronti di Stefanos Tsitsipas: disattese. C’era chi puntava su Frances Tiafoe: niente da fare, eliminato dal quasi coetaneo Alex De Minaur. Infine chi si attendeva la definitiva consacrazione di Denis Shapovalov, e qui il discorso cambia un po’. Non ce la sentiamo di bocciare il giovane canadese nato a Tel Aviv, perché contro Anderson al terzo turno ha giocato una partita straordinaria, ma ha incontrato semplicemente il tennista più in palla dell’anno (esclusi i tre mostri, ovviamente). Bene anche i russi Khachanov e Medvedev, e, soprattutto il croato Coric (che di anni però ne hanno 22, quindi non tecnicamente Next Gen). In linea di massima, comunque, il gap tra i giovani e gli “anziani” sembra ancora incolmabile. Tutti rimandati.
Tra le donne c’è un 1 in pagella da dare, ed è quello che si becca Simona Halep. Uno, come la posizione nel ranking Wta che occupava ai nastri di partenza; uno, come il turno in cui è stata eliminata; uno, come i giorni del suo torneo. Disastrosa.
Per il resto molte conferme, a partire da Kvitova, Pliskova e Stephens. Menzione particolare meritano le due donne che hanno impersonato più di tutte le altre il tennis femminile e il suo mondo negli ultimi quindici anni: Serena Williams, che ha strapazzato la sorella Venus nel trentesimo derby di famiglia e si riappropria del ruolo di favorita principale per la vittoria finale, e Maria Sharapova, che è tornata ad alti livelli e forse può arrivare fino in fondo.
Concludiamo questo nostro viaggio nella prima settimana di Us Open con la vicenda tragicomica dell’arbitro Mohamed Lahyani che si è trasformato in mental coach di Nick Kyrgios per un lungo minuto. Più si rivedono le immagini del giudice di gara svedese che scende dalla sua sedia e dice al tennista australiano di svgliarsi “perché non sei così, io ti conosco, tu sei meglio di così”, e più continuiamo a domandarci perché? Che bisogno c’era di fare quella cosa, con il rischio (confermato nei fatti) di scatenare una lunga sequela di polemiche? La risposta che ci siamo dati è che Lahyani – ottimo arbitro, sia chiaro – si è fatto sopraffare dal suo protagonismo, che spesso mostra anche quando sta seduto in alto al centro del campo. E allora forse è meglio che si dia anche lui – graziato dall’USTA – una bella calmata.
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